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Sarà un accordo ancora più inutile di Kyoto
Di Admin (del 18/12/2009 @ 14:29:26, in News, linkato 1733 volte)
E' più importante il clima o la libertà ? 
"E' importante che la lotta al cambiamento climatico corra parallela allo sviluppo." 
 
Più il traguardo si avvicina, più il barometro segna cattivo tempo. Il vertice internazionale di Copenaghen, nelle intenzioni degli organizzatori, avrebbe dovuto segnare la trionfale trasmutazione del protocollo di Kyoto in un vero trattato globale per abbattere le emissioni. Quello che si vede oggi è, piuttosto, un accordo di basso profilo, con ampie enunciazioni di principio, pochi fatti concreti, pochissimi soldi ammesso che ce ne siano.
Le dichiarazioni rese ieri dai diplomatici trasmettevano un kharma fortemente negativo, tanto che alcuni tra i leader dei maggiori paesi, a partire dall'inglese Gordon Brown, stanno cambiando l'agenda per arrivare nella capitale danese in anticipo sulla tabella di marcia e salvare il salvabile.
 
Il fatto è che, seppure l'esito più probabile del meeting sia quello degli scorsi anni, le condizioni di partenza – e con esse le aspettative – erano molto diverse. Come anomala è stata la morfologia della rottura. Con l'avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, gli europei si erano illusi di trovare una sponda sensibile ai loro progetti e obiettivi. Invece il presidente americano si è allineato nei fatti, se non nei toni, al suo predecessore, George W. Bush. Gli Usa hanno la recessione come priorità assoluta, e sul piano politico Obama punta sulla riforma sanitaria: del clima si parlerà.
 
Le grandi economie emergenti, guidate dalla Cina, restano indisponibili a barattare la crescita economica con la salvezza presunta dell'ambiente, tra l'altro resa meno credibile dal climategate (le email delle superstar della climatologia che discutevano su come truccare i dati per renderli più terrificanti).
 
Ma il fatto veramente nuovo è la faglia che si è aperta lunedì, e che i negoziatori stanno disperatamente cercando di ricomporre. Improvvisamente, un nuovo attore, cioè l'Africa, è sceso in campo. L'asse tattico con Pechino non deve trarre in inganno, perché gli interessi di fondo sono disallineati: i cinesi difendono il loro capitalismo dalle incursioni verdi, gli africani non hanno nulla da proteggere se non la speranza di potersi lasciare la povertà dietro le spalle. Per quanto le conseguenze potenziali del riscaldamento globale facciano paura al continente nero, il fantasma di quello che potrebbe accadere nel 2100 è nulla, se paragonato al mostro del presente: miseria, fame, malattia. Oltre tutto, il surriscaldamento globale non crea problemi, ma rende più aspri quelli esistenti: se li sappiamo risolvere, se aiutiamo l'Africa a dotarsi delle istituzioni necessarie e a imboccare il sentiero della crescita, vivere in un mondo più caldo sarà più tollerabile, e comunque preferibile al costruire un avvenire meno rovente ma più povero ancora.
 
Dunque, o la lotta al cambiamento climatico corre parallela allo sviluppo. Oppure, se implica rincari dell'energia, colonialismo ecologico, dipendenza politica, tanto vale far saltare il tavolo. Accanto a questo, c'è poi un aspetto meno nobile: forse alcuni leader africani speravano di poter aggregare il clima al carrozzone degli aiuti, che - come diceva Peter Bauer, di cui è appena uscito l'aureo volume "Dalla sussistenza allo scambio" (IBL Libri) - sono un trasferimento di risorse dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri.
 
Creano rendite, non ricchezza. Ma questa è un'altra storia. Però è vero che, per come le cose si stavano mettendo, l'Africa rischiava di trovarsi scippata della crescita economica, e pure priva dei sussidi che chiedeva. Taglieggiata dal nostro protezionismo, e compensata solo dalla nostra pietà untuosa.
 
Tornando al clima, sono due le vittime di questo scatto inatteso degli africani, che forse in altri tempi e in altri contesti avremmo chiamato coscienza di classe. Tramonta la santità del protocollo di Kyoto, che sempre più si rivela uno strumento inadeguato, perché troppo rigido, a sostenere uno sviluppo che sia sì sostenibile, ma che sia soprattutto sviluppo. E poi l'Europa, coi suoi buoni sentimenti, con la sua coscienza sporca, coi suoi piani quinquennali, con le sue burocrazie autorefrenziali e sciocche e con la sua arroganza dozzinale.
 
Carlo Stagnaro; "Libero" del 16 Dicembre 2009